L’opera pittorica di Man Ray non presenta alcun ordine cronologico, alcuna evoluzione stilistica e nessuna vocazione di tipo estetico o decorativo: vi sono solo momenti diversi e variazioni su temi diversi.
“Non si può far meglio degli antichi maestri, si può solo essere diversi. Non so che cosa sia originale o moderno. Non sono in anticipo rispetto al mio tempo: vivo solo nel mio tempo e cerco di essere me stesso.”
Egli alternò il suo fare pittura con l’arte della fotografia: due mezzi espressivi che spesso si sovrapposero e si intersecarono nel vocabolario dell’artista.
“Mi sono spesso divertito a fare fotografie che possano essere scambiate per riproduzioni di dipinti e dipinti che sono stati ispirati da fotografie.”
In realtà molto più spesso il pittore influenzò il fotografo mentre, solo raramente, il fotografo influenzò il pittore.
Anche se negli anni Trenta del Novecento Man Ray era più noto come fotografo che come pittore, egli considerava la fotografia come un modo per guadagnarsi da vivere, privilegiando la pittura come arte che più gli interessava: “l’arte non è fotografia.”
Emmanuel Rudnitzky, più comunemente noto come Man Ray, nacque a Filadelfia nel 1890, ma fu a New York, dove si trasferì con la famiglia all’età di sette anni, che crebbe e fece i suoi studi d’arte.
Egli provò subito un certo disgusto per gli insegnamenti tradizionali dimostrando, così, un carattere ostinato e ribelle: “era come quando andavo a scuola da bambino: quando tutti mi dicevano che cosa dovevo fare. Io invece volevo già fare ciò che uno non dovrebbe fare.”
Man Ray trovò una maggiore libertà quando cominciò a frequentare i corsi serali all’istituto d’arte Francisco Ferrer Social Center, luogo di incontro degli intellettuali più avanzati dell’epoca.
Qui potè dare sfogo al suo genio creativo dimostrando, nel contempo, una spiccata individualità e libertà di concezione: caratteristiche queste che lo contraddistinsero nel suo essere artista. Egli, infatti, non può essere univocamente annoverato all’interno di un gruppo o di movimento artistico: nonostante i rapporti che lo legarono ai surrealisti e ai dadaisti, Man Ray aveva troppo in considerazione la propria autonomia di pensiero per poter essere a pieno tipo un surrealista o un dadaista; come nessuna delle sue opere rispose appieno allo spirito dada o surrealista.
“Quanto a me, io mi sforzo semplicemente di essere il più libero possibile: nel mio modo di lavorare; nella scelta del mio soggetto. Nessuno può dettarmi norme o guidarmi. Possono criticarmi, dopo, ma allora è troppo tardi. A quel punto il lavoro è fatto e io ho assaporato la libertà.”
L’opera di Man Ray rivela poca influenza da parte dei grandi maestri o dai suoi contemporanei, poiché l’ammirazione che provava verso di loro non si risolse mai nel desiderio di imitarli, ma piuttosto nella volontà di trarne ispirazione.
Egli sperimentò così, indifferentemente, stili e tecniche: “per esprimere ciò che sento mi servo del mezzo più adatto per esprimere quell’idea, mezzo che è sempre anche quello più economico. Non mi interessa affatto essere coerente come pittore, come creatore di oggetti o come fotografo. Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri che erano ingegneri, musicisti e poeti nello stesso tempo.”
Con le tele, gli assemblage, i collages, i ready made, le fotografie, Man Ray rivelò la sua grande duttilità ed originalità, tanto è vero che ogni opera merita di un commento a se stante, perché autonoma e particolare è ogni sua creazione: una volta padroneggiato uno stile, cessava il piacere della novità e Man Ray passava rapidamente ad un altro.
Il 14 luglio 1921 Man Ray sbarcò a Parigi; vi giunse quando il Dadaismo si stava avviando verso la sua naturale fine ed il Surrealismo stava prendendo forma attorno a poeti quali Breton, Eluard e ad artisti quali Ernst, Duchamp, Arp e Masson.
Nel corso dello stesso anno Man Ray tenne la sua prima personale in Europa alla Librairie Six: la mostra comprendeva molte fra le opere più importanti di Man Ray eseguite a New York.
L’esito fu del tutto deludente, anzi, fu un completo fiasco: l’artista non vendette nulla e si trovò quindi nella condizione di intensificare l’attività di fotografo da cui traeva fama e sostentamento.
Durante gli anni del suo primo soggiorno a Parigi (1921-1940), Man Ray si affermò come fotografo professionista divenendo collaboratore di importanti riviste di moda ed il ritrattista ufficiale della ricca borghesia francese.
Nonostante tutto Man Ray non amò mai particolarmente il mezzo fotografico, ai suoi studenti diceva: “se volete fare fotografie, gettate via la macchina fotografica.”
Anche se erano tempi duri per le avanguardie e per il loro riconoscimento in ambito artistico, a quest’epoca risalgono gli assemblage più famosi di Man Ray come il Dono (1921), l’Oggetto indistruttibile (1923) o la Venere restaurata (1936), solo per citarne alcuni, oggetti comuni riproposti e ricontestualizzati, pregni di significati simbolici ed onirici, di fantasie erotiche e sadiche.
Anche le tele del primo soggiorno parigino sono tra le più significative nel catalogo dell’artista: All’ora dell’osservatorio. Gli amanti (1932-1934) è forse la più nota fra le opere di Man Ray e la sua notorietà non è immeritata.
Nel giugno del 1940, quando il governo francese aveva dichiarato l’armistizio, molti degli amici di Man Ray avevano già abbandonato Parigi.
Durante le sue ultime settimane di permanenza nella capitale, l’artista mise al sicuro le sue opere e quindi si mise in viaggio verso gli Stati Uniti: la situazione dell’Europa stava precipitando negli abissi di quello che sarà il secondo conflitto mondiale.
Ritornato in America, oramai cinquantenne, dopo aver lasciato gli amici di una vita, Man Ray si isolò nella sua arte, affiancato da quella che poi diventerà la sua compagna fino alla fine dei suoi giorni: Juliet Browner, una ballerina che aveva studiato danza con Martha Graham.
Con lei si trasferì in California e si dedicò a ricreare molte delle sue opere credute perdute durante la guerra e a disegnare diverse scacchiere, riprendendo la sua antica passione per gli scacchi. Oltre che affascinato dal gioco, Man Ray era anche attratto dal significato simbolico della scacchiera: il terreno su cui si svolge la battaglia della vita, ragione ed ordine contro conflitto e caso.
Tra gli oggetti più notevoli elaborati durante il secondo periodo americano di Man Ray (1940-1951) vi è certamente la serie delle Maschere ridipinte.
Una delle funzioni della maschera è di nascondere l’identità di chi le indossa: “dipinsi maschere di cartapesta per le ragazze che le mettevano e facevano strani balli, in un completo abbandono, sicure della loro anonimità” – ricorda Man Ray a proposito degli sfrenati party di Hollywood dell’inizio degli anni Quaranta.
Una funzione, dunque, disinibitoria a cui si sovrappose, nell’immaginario dell’artista, un significato antropologico e psicologico di grande pregnanza e tradizione letteraria: la maschera dà a chi la indossa gli attributi del personaggio rappresentato.
Man Ray non si era mai trovato a suo agio negli Stati Uniti: molti suoi amici, a guerra conclusa, erano tornati in Europa e nella società hollywoodiana si era sempre sentito un escluso, la pecora nera.
“Le persone che avevo visto più spesso lasciarono la scena una a una come nella sinfonia di Haydn in cui i musicisti alla fine escono uno alla volta, spegnendo le loro candele[…]. Hollywood cominciava a perdere il suo fascino.”
All’inizio del 1951 Man Ray sbarcò per la seconda volta a Le Havre, questa volta accompagnato dall’amata Juliet.
Nei primi sette anni di permanenza a Parigi egli rallentò il ritmo della sua produzione, pur continuando a creare oggetti, a scattare foto e a dipingere quadri. Rinnovò il suo stile e sperimentò nuove tecniche, come era solito fare quando desiderava esprimere nuove idee o visioni.
“Cercavo una tecnica nuova che fosse più automatica, come quando si semina o si pianta un alberello e poi si conta sulle forze della natura perché facciano il resto. Stendevo i colori secondo l’impulso del momento e, messi da parte pennelli e spatole, applicavo una pressione con altre superfici, ritirandole per produrre una sorta di variazione del test di Rorschach. I risultati furono sorprendenti, con particolari che avrebbero potuto essere ottenuti solo con un lungo e minuzioso lavora a mano. Detti a queste produzioni il titolo generale di Dipinti naturali.”
Man Ray, nelle sue sperimentazioni, come al solito non era guidato dal desiderio di ottenere un risultato esteticamente gradevole: il procedimento esprimeva il suo disprezzo per il mezzo e il suo interesse per la bellezza imprevedibile che può essere creata dal caso.
Un dipinto, una rayografia, un oggetto, una fotografia, un film, per Man Ray non erano destinati a piacere ma atti a trasmettere un’emozione, una sensazione: “per me non c’è alcuna differenza tra letteratura e pittura. Un quadro dev’essere un’idea.” In questa frase è racchiusa la poetica della vasta opera dell’artista, un artista versatile nei mezzi e nei linguaggi, ma fondamentalmente fedele alla sua personale ricerca ed espressione intellettuale.
“Non mi sono mai proposto di registrare i miei sogni, ma solo di tradurli in realtà. A questo scopo non mi riferisco mai a essi come sogni […]. Le strade sono piene di meravigliosi artigiani, ma sono così pochi i sognatori pratici.”
Nel novembre 1876 Man Ray morì e fu sepolto al cimitero di Montparnasse dove Juliet fece incidere nella sua lapide: “Unconcerned but not indifferent – Man Ray – 1890-1976 – love Juliet.”
“Dipingo ciò che non può essere fotografato e fotografo ciò che non desidero dipingere.
Se mi interessano un ritratto, un volto o un nudo, userò la macchina fotografica.
E’ un procedimento più rapido che non fare un disegno o un dipinto.
Ma se è qualcosa che non posso fotografare, come un sogno o un impulso inconscio, devo far ricorso al disegno o alla pittura.”